Movistar, con Einer Rubio, ha vinto la tappa alpina del Giro d’Italia, ridotto a un terzo | Sport

Einer Rubio alza i pugni dopo aver vinto a Crans Montana contro un succoso Pinot.Marco Alpozzi/LaPresse (LAPRESSE)

Solo la follia di Thibaut Pinot, la sua inevitabile sconfitta in vetta al Crans Montana, ha dato un senso al giorno più triste del Giro dove l’unica gioia è nella vita, grazie alle vittorie di Einer Rubio, Movistar e Colombia.

Timido come il sole che brilla appena e non scalda le montagne della Svizzera, muri di neve in cima alla Croix de Coeur, il beniamino del Giro rotola serenamente in tran tran – un ritmo difensivo, come si dice in gergo, scandito dai pesi massimi. , o infortunato, dal leader di Ineos Geraint Thomas—, attraverso la valle di Padre Ródano, lì incombenti, i 74 chilometri che sono stati ridotti dalla decisione dei corridori (il 90% del gruppo ha votato per gli infortuni), che temono la pioggia che non cade, il freddo che non soffrono.

Gli atleti si sentono potenziati. Finalmente. Non sono più schiavi. Artisti senza diritti, solo per intrattenere, emozionare, dare senso ai desideri degli organizzatori, si credono emancipati quando non sono altro che vittime delle contraddizioni della loro professione, professionisti dello sport all’antica in un mondo postmoderno. I ciclisti vogliono sentirsi come qualsiasi altro atleta, poter parlare di tecnologia degli pneumatici, pericolo e velocità senza camera d’aria, così all’improvviso la loro frenata, il wattaggio, il controllo nutrizionale, il calcolo e il valore dei campioni, il loro appetito per l’avventura. I tifosi, che fischiavano e schernivano dalle fredde grondaie, i ciclisti che percorrevano i due terzi della tappa in pullman, e il Gran San Bernardo, sopra e sotto, parlavano di romanticismo ed eroismo, della sublimazione della sofferenza, di quei momenti quando si esaurisce la fame, la rabbia o l’amore non si può morire, solo pedalare senza spezzare le proprie radici può sopravvivere. E si svegliano, e ascoltano, mentre parla Eddy Merckx, il Cannibale che vinse il suo primo Giro, già nel 1968, contro una giornata di neve sulle Dolomiti, maglia di lana inzuppata e arrotolata, il rumore dei ricordi. “Se la pioggia e il vento sono un problema, è meglio restare a casa a giocare a carte”, avverte il pilota della Merckx Giro. “Il ciclismo non fa per te.”

“Noi, Ineos, vogliamo essere la maggioranza. Molti corridori si ammalano [cuando al Giro le quedan aún ocho etapas, y las más duras, han abandonado ya 41 de los 176 ciclistas que lo iniciaron el 6 de mayo]. Una giornata di più di cinque ore sotto la pioggia, al freddo, non sarebbe l’ideale”, ha detto il leader, Thomas. “So che alla fine la giornata non è stata poi così male ma ci siamo basati il ​​giorno prima sulle previsioni del tempo. Colpire è sempre difficile.” È bastata una simbolica accelerazione di Damiano Caruso, lanciata dal suo compagno di squadra colombiano Santiago Buitrago, a due chilometri dal traguardo, perché Thomas e Roglic alzassero il culo dalla sella e il loro cuore battesse forte.

È l’anniversario della morte di Luis Ocaña, 29 anni fa, dio della testardaggine e delle stronzate, grande anti-Merckx del ciclismo, e prima della falsa partenza, alle 10, manager Eolo, la squadra formata a metà tra Alberto Contador e Ivan Basso, due campioni apparsi dal nulla, annunciano con grande tristezza la morte del loro 25enne pilota Arturo Grávalos, che ha subito il primo intervento chirurgico in due anni per rimuovere un tumore al cervello in proliferazione e si è concluso con i suoi poteri. , ma mai dalla sua voglia di vivere, dal suo zelo. La sua lotta, tra i ciclisti di Cuenca contro tutti, la lotta per la vita di Grávalos, si riflette nelle tappe di Pinot, il ciclista che non vuole essere una star, che si sente strano in un mondo di conformisti e che è sbilanciato nella valle e nella salita finale, 12 chilometri, i suoi due compagni di corsa, Rubio e Jefferson Cepeda dall’Ecuador. Il Pinot più forte, veloce e ritmato, non ha capito che i due ciclisti andini non lo stavano deludendo. Li caricò ancora e ancora, avanzando di qualche metro e presto li rivide sulle sue ruote, come fumatori. Sfiancando così il francese che voleva lasciarsi alle spalle il ricordo delle sue gesta. Non vuoi il romanticismo? La rabbia ha accecato Pinot. È una battaglia di testardaggine e batticuore contro lucidità, pura assurdità contro ragionamento tattico. “Forse non vincerò io”, disse a un certo punto a Cepeda, indicandolo, “ma scommetto che non vincerai neanche tu”. Il terzo, Rubio, che era il più intelligente, vinse. Li ha lasciati parlare. Li ha fatti dimenticare. Li ha sorpresi negli ultimi metri. Questo è anche il Giro de la Diversidad: 12 piloti diversi di 11 squadre diverse (solo Soudal d’Evenepoel e EF de Healy et Cort si ripetono) hanno vinto la tappa.

Rubio, 25 anni, è un ciclista affamato, in fuga dalla povertà della vita contadina in Colombia. Faceva il muratore a Paipa, Boyacá, ed è emigrato in Italia quando aveva 19 anni. È diventato un ciclista presso la scuola della Fondazione Esteban Chaves a Bogotá, ed è stato in Italia che è cresciuto ed è diventato uno dei migliori scalatori nelle gare under 23 del paese. Nel 2018 ha vinto la tappa in salita, un bel valico alpino al confine con la Slovenia, davanti a Pogacar; nel 2019 è arrivato secondo al Giro sub 23. Nel 2020, all’età di 21 anni, ha raggiunto il suo obiettivo WorldTour. “Sono andato in Italia da solo”, ha detto il broker. “Un manager italiano, Gino Ferri, mi ha chiesto i dati degli stress test e siccome erano buoni, mi ha portato nel 2017 in una squadra del sud Italia, a Benevento, vicino a Napoli. All’inizio mi sono divertito molto, ma sono riuscito ad adattarmi. Vivo nella casa di Donato Polvere, il team manager, e di sua moglie. Sono i miei secondi genitori. E la mia ragazza è italiana.

Diversi anni fa, suo padre, Libardo, ha raccontato le avventure di suo figlio, vincitore di tappa a Crans Montana, tra le montagne e i vigneti svizzeri ben conservati: “Non siamo più agricoltori, ora lavoriamo nel riciclaggio a Bogotà. patate a San Pedro de Iguaque, 3.000 metri sul livello del mare vicino a Villa de Leyva, Arcabuco e Cómbita, anch’essa terra di Nairo, ma otto anni fa il prezzo delle patate ha iniziato a scendere, i nostri raccolti erano scarsi e non potevamo smettere di prenderle. Abbiamo venduto la mucca e siamo andati a Bogotà. La campagna sta morendo e il governo non sta facendo nulla, lasciando tranquillamente alle spalle la fine della cultura contadina. La nostra vita. Ah, ma non abbiamo venduto la terra. Abbiamo una capanna lì e quando Einer smette di pedalare e torna indietro, torneremo tutti lì.

Come Rubio, circa 60 ciclisti colombiani sono immigrati giovanissimi in Italia e Spagna, cercando principalmente un futuro nel gruppo.

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Fedele Golino

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