Di Miguel Martínez Naon
Militante del PRT, detenuto durante la dittatura civile-militare, presenta il suo nuovo libro “Esercizi di memoria”, in cui, attraverso sette racconti, racconta i conflitti e le sofferenze vissute in prigionia e invita a una profonda riflessione sulle vicissitudini dell’esistenza, sulle relazioni umane e le tragedie della società che hanno deciso di impegnarsi in una qualche forma di resistenza collettiva.
-Nel prologo del libro affermavi che una volta liberato la vita si arricchiva continuamente, e continuavi a scrivere, anche se con un senso terapeutico, come hai iniziato questa esperienza di scrittura?
-L’idea era di fare un regalo al mio amico e compagno di cella, Rafael, ricordando nella riunione, il revival di alcuni aneddoti lo ha reso molto divertente. Ho pensato di provare a catturare l’eccitazione. Perché, forse, questo è ciò che conta di più: il trionfo della gioia. Significa molte cose, per esempio, che non ci picchiano, che non possono zittirci. Ci sono molti modi per associare le risate alla vita. Ma anche questa nuova gioia, questo nuovo abbraccio, merita di essere raccontato. Quello, al confino, perché erano la spina dorsale di ogni resistenza, e quella presente perché non solo l’hanno resuscitata ma anche il motore per portarla avanti.
La storia dell’umanità e anche la nostra storia familiare insegna che ci sono 2 modi per superare tempi drammatici. Cercare di dimenticare e lasciare che alcuni grandi fantasmi e grandi paure crescano da soli, oppure pensare, contemplare e infine ironizzare su ciò che è stato vissuto. Mamma Angelita, nei giorni che precedevano ciascuna delle immancabili visite settimanali al carcere, trovava e memorizzava qualche aneddoto divertente da raccontare, prima tra i familiari, e poi per rallegrare le nostre conversazioni. Tant’è che quando sono tornato dalla visita, già nel cortile, i compagni di classe mi hanno detto: “Ehi, gringo, dai, racconta l’ultimo della tua vecchia”.
-Se potessi sintetizzare il significato di questo libro in poche parole, quali useresti?
-La popolazione dei detenuti politici si distingue, in generale, per l’alto profilo umano, morale e professionale. Il contributo di colleghi esperti nelle scienze sociali o psicologi ha permesso di elaborare strategie di contenimento dei piani militari (a loro volta sviluppati da altri professionisti) per la distruzione fisica, psichica e morale dei prigionieri politici. Questo libro è stato scritto, in parte, come ringraziamento a colleghi preziosi e indispensabili con molta più esperienza e formazione. D’altra parte, come testimonianza ai miei nipoti e ai giovani che stanno affrontando nuove sfide, è necessario sapere cosa abbiamo fatto prima.
È stato scritto pensando di calcolare bene, piuttosto che raccontare tutto. Una delle prime volte che mi hanno chiamato per parlare, ho preso appunti cronologici, dopodiché si sono addormentati tutti. All’inizio ho resistito a raccontare, perché non credo che con tanti scrittori, storici e intellettuali, il contributo del prezzemolo a 20 anni sia insignificante. Finché qualcuno non mi ha fatto capire il valore della testimonianza. Solo chi è stato a Sierra Chica può descrivere l’odore di disinfettante, di creolino e la mancanza di colori netti e monotoni, oltre ai toni grigi delle pareti e delle uniformi. Chi ascolta coglie subito la verità della storia e capisce che certi dettagli si spiegano solo stando lì. Da allora, attraverso l’Associazione 24marzo Onlus, abbiamo avuto colloqui regolari. Il libro non è altro che annotazioni di alcuni di essi.
-Attraverso le storie, puoi intravedere come sei sopravvissuto a 7 anni di prigione, il potere che hai per resistere alla prigione. Puoi spiegare qualcosa di quell’esperienza?
-Un giornalista ha chiesto a Primo Levi se le dure esperienze in campo lo avevano temprato. “Stai parlando con qualcuno che è abbastanza fortunato da sopravvivere. I campi non rafforzano né induriscono nessuno», rispose. Tuttavia, se vuoi informarti sull’argomento, devi farlo nella storia dei sopravvissuti, nei cibi che ti hanno rafforzato il fisico fin dall’infanzia, negli insegnamenti morali ricevuti, nel numero di libri letti, nella storia familiare, nelle lotte precedenti che l’hanno forgiata come persona.
Durante i miei anni di reclusione, ho rivisitato la mia storia, grazie alla sollecitazione di diversi colleghi. La storia partigiana e antifascista di mio padre, le commedie dei 2 nonni nella prima guerra mondiale, sono tutti precedenti che, certo, mi hanno aiutato molto a rifiutare quella parte che chiamo “inferno”.
Qualche settimana prima del mio arresto, a un cineforum universitario tenutosi al cinema Rossini, in calle Soler, ho visto un film di Alberto Sordi. Arrestato in attesa di processo, film che denunciava il sistema carcerario italiano di allora. Non ho incontrato gli organizzatori, anche se vorrei poterli ringraziare per quanto il film mi ha avvertito e preparato. La cultura serve a rafforzare gli esseri umani. Infine, la forza più grande viene da una forte solidarietà collettiva. Nessuno si salva da solo. Ogni ex detenuto ha queste parole impresse nella memoria.
-Pensi che ci sia altro da raccontare o è tutto racchiuso in questo primo lavoro?
-Come ho detto a Liliana, la prima amica che ho trovato tornando a casa dopo 7 anni, il regalo ideale per un ex prigioniero politico sono le orecchie grandi che sanno contare le ore pensando alle risposte. Tuttavia, per desiderio personale, ritengo importante raccontare una bella storia, cercare di trasmettere l’impossibile e l’impossibile esperienza umana. Ma comunque, provalo. Credo che l’idea di memoria contraddica l’idea di sintesi, di semplificazione. Attraverso la nostra Associazione in Italia, Onlus 24 marzo, partecipo spesso a colloqui su questo tema, come testimone. Da allora ho imparato a fornire dosi alterne di informazioni dopo l’altra.
Non mi considero affatto uno scrittore, pur mantenendo sempre la totale disponibilità a ricercare o aggiornare chiunque sia interessato all’argomento. E a proposito di raccontare tutto, il 6 giugno si è tenuta un’iniziativa a Bahía Blanca, presso il Centro di Storia Culturale dell’UNS, dove si è parlato della ricca esperienza del Dipartimento di Agronomia nello stesso edificio, nel 1973 e 74. Cioè nel contesto questa è la mia militanza in crescita. Un’esperienza che la storia ufficiale non si limita a dimenticare ma cerca di insabbiare o infangare.
-Dal tuo punto di vista di militante ed ex prigioniero politico, come vedi l’Argentina oggi, dall’Italia?
-La domanda più difficile. Le prospettive globali generali sono preoccupanti, soprattutto alla luce del rischio generale di un’escalation militare. Viviamo in un’epoca di profondi cambiamenti da quando gli Stati Uniti hanno perso la leadership globale. Lo spazio nazionale è ridotto al minimo e gli interessi finanziari sono più importanti dell’opinione politica. Le feste, come sappiamo, sono scomparse. Tuttavia, il cambiamento e il miglioramento sociale vengono sempre dal basso, dalla mobilitazione del popolo, e cioè dai paesi dell’America latina, gli unici posti al mondo da cui si respira un’aria di resistenza. In politica, al di fuori dei casi individuali o umani, è considerato dalla parte giusta della Storia. In carcere il colore della divisa aiuta a far capire da che parte si sta. Oltre a ciò è un po’ più difficile e, a volte, complicato, ma di fronte alle proposte di restituire il genocidio o la resa dei paesi al FMI, non ci devono essere esitazioni.
Una cosa ben accolta dall’Italia è il servizio che l’Argentina ottiene nel mondo per le sue politiche sui Diritti Umani, grazie ai cambiamenti portati da Néstor Kirchner in questo campo. A ciò ha contribuito non poco una lunga serie di processi condotti a Roma, riguardanti vittime italiane, fin da prima della fine della dittatura. Attualmente sono in corso procedimenti giudiziari contro tre assassini di massa e un ex prete che frequentava il Clandestine Detention Center.
“Lettore certificato. Zombie geek. Avido esperto di alcol. Tipico fanatico del cibo. Praticante di viaggio.”